Recensione: “X-Men: Giorni di un Futuro Passato” di Bryan Singer

Da tempo si auspicava il ritorno di Bryan Singer nella saga dei mutanti, da lui stesso resa famosa nel 2000 con l’uscita di X-Men, primo fortunato capitolo della celebre saga Marvel. Sì, è vero, già tre anni fa ci era stato regalato quel gioiellino di X-Men: L’Inizio, partorito dalla mente di Matthew Vaughn, ma ciò in cui noi riponevamo speranza era proprio un ritorno di Singer alla regia per mettere mano (e, per quanto possibile, sistemare) alle Immaginecentinaia di storyline (passate, presenti, future) introdotte nei vari capitoli e spin off della saga. Potete quindi immaginare la sorpresa/emozione all’annuncio del ritorno di Bryan come regista di questo X-Men: Giorni di un Passato Futuro. Un putiferio di nerdgasmo e incontinenza diabetica!

Che Bryan Singer fosse l’uomo giusto per questa esperienza cinematografica lo sia era quindi già capito nel 2000 (e ancor più nel 2003 con X-Men 2), ma questo Giorni di un Futuro Passato non fa che alzare la posta in gioco e, in generale, il tiro che si vuole dare ai prossimi cinecomic FOX.

Il potere corale di questo film è altissimo e pienamente sviluppato. La squadra McAvoy, Jackman e Fassbender spacca di brutto! Al massimo della loro forma abbiamo: un Charles Xavier ringiovanito finalmente protagonista dello schermo (non fatevi ingannare dalle lacrime, qui di forza interpretativa ce n’è e parecchia), un Wolverine maturo con fighissime chiazze di capelli bianchi (!) e un Magneto veramente spietato, deciso nella sua missione, ma pur sempre fratello della perfetta alchimia con Xavier.

Riuscitissimi anche i personaggi di Mystica e Trask, interpreto dal bravissimo Peter Dinklage di Game of Thrones.

Si fanno balzi fra il passato e il futuro (e le realtà alternative!), si incontrano personaggi vecchi e nuovi e si riprendono alcune Immaginetematiche lasciate in sospeso con X-Men 2 (e purtroppo non sviluppate nel tragico sequel), tanto care a Singer: l’arroganza e lo strapotere delle forze militari annesse alla ricerca scientificail pregiudizio verso il diverso e la risposta sociale affidata ai governile difficoltà di integrazione e di informazione. Se mancava qualcosa ai primi due capitoli, qui si arriva alla chiusura del cerchio, attraverso un meccanismo che rispecchia l’organicità e la completezza della visione singeriana.

Un film epico, potente, dai toni maturi e coraggioso nella messa in scena. Si ride molto e ci si emoziona ancora di più (soprattutto nei confronti Xavier anziano/Xavier giovane; Xavier anziano/Magneto anziano). L’introduzione di Pietro/Quicksilver è riuscitissima e d’effetto (sarà dura per i Marvel Studios fare di meglio l’anno prossimo con The Avengers: Age of Ultron), come d’effetto sono le tantissime (ma non tropnew-x-men-days-of-future-past-image-reveals-magnetos-new-suit-148154-a-1383834670-470-75pe) scene d’azione.

Che cosa ci resta da fare ora? Rimanere seduti in sala e gustarci l’aroma di un film riuscito, un cinecomic quasi perfetto, che non ha paura di attingere a mani alte dal fumetto originale.
Resta da vedere cosa accadrà da qui in poi, ma le premesse sono esaltanti.
Chi è rimasto in sala ad assistere alla scena dopo i titoli di cosa sa di cosa sto parlando.

Recensione: “Noah” di Darren Aranofsky

Ed eccoci qua. Alla fine della tenebra e alle luci del principio.

Chi di servizio corre ad aprire le porte di uscita annunciando l’imminente conclusione del film, alcuni iniziano ad alzarsi, un arcobaleno straccia lo schermo e, sfocando, introduce i titoli di coda.

Rimane così l’imperterrita visione biblica di Aranofsky, scolpita sulla tela di un vecchio cinema di provincia che proietta film ancora su pellicola (ndr. ricordatevi che entro la fine dell’attuale stagione cinematografica si dovrà passare al digitale causa interruzione produzione pellicole). Una visione epica, pungente, visivamente spettacolare ma tanto confusa quanto la tendenza onirico-dark tipica di Darren. Non c’è nulla dello splendido e definito arcobaleno finale nel resto del lungometraggio.

Noah-e1384349902870Che il regista de Il Cigno NeroThe Wrestler fosse un appassionato di misticismo e amasse infarcire i suoi film di messaggi criptici e new-age era cosa ben risaputa, fin dai tempi del complessato The Fountain (tutto sommato ben riuscito), ciò che forse non si sapeva o che, per lo meno, molti ignoravano è il suo spiccato ateismo re interpretato. E forse, proprio per questo suo aspetto personale, molti, tanti, si aspettavano un film (radicalmente) diverso da quello visto.

Perchè di fatto, Noah, è una trasposizione fedele e canonica (più di quanto si possa immaginare) del capitolo biblico dedicato a Noè e alla sua disperata missione sull’Arca.

Il kolossal epico scritto a quattro mani con Ari Handel svolge perfettamente il suo ruolo, intrattenendo, emozionando, infarcendo la trama con creature simil-fantasy e lezioni new-age, il tutto senza sconvolgere (quasi) mai il canone biblico da cui è tratto. E la delusione arriva forse proprio a questo punto: ci si aspettava minore adesione e più originalità, ribassi di buonismo pseudo cattolico e maggiore rielaborazione tematica.

Seguire le imprese del Noè di Aranofsky, i suoi sogni, il suo incontro con i Vigilanti (angeli caduti e divenuti mostri di roccia), la sua costruzione dell’Arca e il suo successivo fanatismo imposto, è senz’altro cose buona e giusta. Bella nella sua rappresentazione, nei suoi scenari, nel suo cast (Russel Crowe ci regala una delle sue migliori interpretazioni di sempre!), Noah-il-fantasy-biblico-di-Darren-Aronofsky-5-cose-da-sapere_h_partbla storia procede liscia come l’olio, senza subire scossoni rivelanti o mettere (più di tanto) in dubbio le azioni di Noè. Sì, perchè contrariamente alle atmosfere claustrofobiche e profondamente cupe del terzo atto, il film risente di un buonismo giustificatorio piuttosto duro da mandar giù. Nonostante il (genocidio?) massacro a cui Noè è costretto ad assistere, si rifiuta di imbarcare sulla sua Arca anche un solo umano peccatore, cadendo nelle pene della follia del fondamentalismo e arrivando a chiedere ai suoi stessi figli di suicidarsi in nome di un nuovo Eden. Chiaramente nessuno della famiglia morirà, Noè si rivedrà all’ultimo momento e si ritirerà solo sulle sponde di un isola da poca risorta dalle acque. Ci si aspetta il dolore, la mazzata Aranofskyana sul finale, nessuna pietà per un uomo che ha accettato di veder morire milioni di persone senza salvarne nessuna e invece…e invece…si arriva alla situazione risolutiva delle ultime scene in cui, sostanzialmente, il regista sembra voler giustificare o, se non altro, assecondare le azioni di Noè, ridandogli la sua famiglia e un ultima battuta pronta a dissipare ogni dubbio: “Così doveva essere fatto!”, condendo la scena con colori accessi e località simil sognanti dell’Islanda, senza dimenticare un buon brano epico in sottofondo.

Manca il coraggio della sconfitta, il senso di colpa, il cuore di un uomo che amava la vita e che ha guardato morire ogni singola anima peccatrice (innocente) che camminasse sulla terra.

Dura da mandar giù. Piacerà molto ai gruppi evangelici della Chiesa Sud-Americana.

Se non altro rimane il piacere della spettacolarità visiva tipica del cinema di Aranofsky. Scene come quella dello skyp veloce sulla creazione dell’universo o della montagna di corpi urlanti fra le onde dell’oceano farebbero impallidire i migliori Malick e Lynch.

Russell Crowe as Noah