Recensione: “The Leftovers” (Episodio Pilota) di Damon Lindelof

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“Sono Sveglio?”

A volte ritornano…

…sì, a volte succede. Succede che a volte ritornino autori come Damon Lindelof. Uno dei migliori, e non ho paura a dirlo, scrittori televisivi dell’attuale generazione di settore. Il ragazzo è un golden boy, una vera gallina dalle uova d’oro. Ottime, tante idee e, senza ombra di dubbio, il gusto per la narrazione ad incastro, a puzzle.

Estraneo al mondo telefilmico dal 2010, dopo che il suo Lost portò a termine una lunga e appassionante corsa durata 6 anni, Lindelof ritorna con una nuova serie. Stavolta forse più di nicchia (infatti va in onda su HBO), ma pronta a serbare grandissime sorprese.

Perchè?

Innanzitutto perchè il Pilot è veramente bello! Il migliore della stagione 2013/2014. L’ennesima scommessa vinta per HBO, dopo True Detective.
Peter Berg è al massimo della forma e ci regala un piccolo film costruito sull’intensità delle emozioni e delle performance degli attori (è sempre un piacere rivedere Justin Thoreaux dopo averlo apprezzato in Six Feet Under). Non c’è un solo fotogramma fuori posto, il montaggio è sublime e le scelte musicali sono davvero azzeccate (oltretutto sentire Retrogade di James Blacke mi ha dato una gran gioia ). Berg è un ottimo mestierante, e lo dimostra in diverse sequenze (magistrale la costruzione della suspence nella sequenza di apertura).

Ma The Leftovers non si distingue solo per capacità tecniche. Anzi, a sorprendere sono soprattutto la profondità dei temi affrontati e la qualità di scrittura. Il contesto sociale, i conflitti ideologici interni alla comunità, le reazioni dei singoli cittadini, queste le principali tematiche dell’episodio, sviscerate fino al midollo e in perfetta sintonia con la discussione scienza/fede. Cosa è successo ai nostri cari? Chi li ha portati via? E’ stato Dio? O il caso? Una cosa ci ricorda Lindelof, e io gli sono devoto per questa caratteristica: la domanda intrattiene maggiormente della risposta.

Il mistero è palpabile, come lo è la fragilità su cui poggia il quotidiano dei sopravvissuti. La tensione con i Guilty Renmant esploderà? Cosa ha spinto la moglie di Kevin a inserirsi nella setta? Qual’è il ruolo di Wayne? Perchè Matt…..insomma tantissime questioni su cui porre un punto interrogativo, perfettamente incastrate all’interno della trama.

In definitiva un pilot eccezionale, che lascia molte porte aperte per il futuro e un grandissimo senso di curiosità per conoscerne il prosieguo. Cercavo l’amore, e l’ho trovato.

Lindelof, ci eri mancato! Bentornato.

Chicca dell’episodio: Papa Benedetto XVI scomparso….un piccolo esulto me lo sono lasciato sfuggire

Recensione breve: Dylan Dog – “Lassù Qualcuno Ci Chiama” di Tiziano Sclavi

“Pazzi! Avete dimenticato, avete perso la lingua madre!”

Storia e soggetto bellissimi. Un Dylan inedito per me, che ero abituato (e velocemente mi ero disabituato, mollandolo) alla versione moralista e puritana di Recchioni & co.
Qui siamo su ben altri livelli. L’ironia c’è ed è calzante, ricca: equilibrata e grottesca nel duo Dylan/Groucho; allucinante e fantasiosa nei sogni di Humbert. 

tavoled_2Dylan Dog non è una macchietta! E questa è la cosa che ho preferito. Se nei numeri letti in precedenza, mi aveva dato l’idea di un John Constantine italianizzato e impoverito, qui Dylan si riscopre come un personaggio a 360′, con una sua identità. E’ dark, è geniale e spesso e volentieri introverso, quasi fosse un Tim Burton indagatore dell’incubo.

Senza spendere troppe parole sul soggetto della storia (che ho amato, davvero tanto), che magari, per chi ha letto i primi episodi, non è nemmeno dei migliori, mi limito a dire che lo stile di scrittura di Sclavi è originale, citazionista (da Keanu Reeves a Umberto Eco; da Gandhi a E.T. di Spielberg!) e fluido. Ci si perde nelle sue filastrocche, canzoni celtiche e quant’altro. Un linguaggio poetico popolare, quasi fosse figlio di De Andrè.

Si cerca la lingua madre, si cerca una figlia scomparsa. Chi vuole credere, chi permetterà ai suoi occhi e alle sue orecchie di non venire ingannati, scoprirà che la soluzione dei casi risiede nella stessa risposta: L’anima, i ricordi, l’esperienza del singolo individuo eco2sono la voce originale, la lingua madre. Un marchio che rimbalza, una volta asceso ad un nuovo stato di esistenza, per tutto l’universo.

Grazie Sclavi. Grazie Dylan. A volte abbiamo bisogno di credere che lassù qualcuno ci chiama.

Recensione: “X-Men: Giorni di un Futuro Passato” di Bryan Singer

Da tempo si auspicava il ritorno di Bryan Singer nella saga dei mutanti, da lui stesso resa famosa nel 2000 con l’uscita di X-Men, primo fortunato capitolo della celebre saga Marvel. Sì, è vero, già tre anni fa ci era stato regalato quel gioiellino di X-Men: L’Inizio, partorito dalla mente di Matthew Vaughn, ma ciò in cui noi riponevamo speranza era proprio un ritorno di Singer alla regia per mettere mano (e, per quanto possibile, sistemare) alle Immaginecentinaia di storyline (passate, presenti, future) introdotte nei vari capitoli e spin off della saga. Potete quindi immaginare la sorpresa/emozione all’annuncio del ritorno di Bryan come regista di questo X-Men: Giorni di un Passato Futuro. Un putiferio di nerdgasmo e incontinenza diabetica!

Che Bryan Singer fosse l’uomo giusto per questa esperienza cinematografica lo sia era quindi già capito nel 2000 (e ancor più nel 2003 con X-Men 2), ma questo Giorni di un Futuro Passato non fa che alzare la posta in gioco e, in generale, il tiro che si vuole dare ai prossimi cinecomic FOX.

Il potere corale di questo film è altissimo e pienamente sviluppato. La squadra McAvoy, Jackman e Fassbender spacca di brutto! Al massimo della loro forma abbiamo: un Charles Xavier ringiovanito finalmente protagonista dello schermo (non fatevi ingannare dalle lacrime, qui di forza interpretativa ce n’è e parecchia), un Wolverine maturo con fighissime chiazze di capelli bianchi (!) e un Magneto veramente spietato, deciso nella sua missione, ma pur sempre fratello della perfetta alchimia con Xavier.

Riuscitissimi anche i personaggi di Mystica e Trask, interpreto dal bravissimo Peter Dinklage di Game of Thrones.

Si fanno balzi fra il passato e il futuro (e le realtà alternative!), si incontrano personaggi vecchi e nuovi e si riprendono alcune Immaginetematiche lasciate in sospeso con X-Men 2 (e purtroppo non sviluppate nel tragico sequel), tanto care a Singer: l’arroganza e lo strapotere delle forze militari annesse alla ricerca scientificail pregiudizio verso il diverso e la risposta sociale affidata ai governile difficoltà di integrazione e di informazione. Se mancava qualcosa ai primi due capitoli, qui si arriva alla chiusura del cerchio, attraverso un meccanismo che rispecchia l’organicità e la completezza della visione singeriana.

Un film epico, potente, dai toni maturi e coraggioso nella messa in scena. Si ride molto e ci si emoziona ancora di più (soprattutto nei confronti Xavier anziano/Xavier giovane; Xavier anziano/Magneto anziano). L’introduzione di Pietro/Quicksilver è riuscitissima e d’effetto (sarà dura per i Marvel Studios fare di meglio l’anno prossimo con The Avengers: Age of Ultron), come d’effetto sono le tantissime (ma non tropnew-x-men-days-of-future-past-image-reveals-magnetos-new-suit-148154-a-1383834670-470-75pe) scene d’azione.

Che cosa ci resta da fare ora? Rimanere seduti in sala e gustarci l’aroma di un film riuscito, un cinecomic quasi perfetto, che non ha paura di attingere a mani alte dal fumetto originale.
Resta da vedere cosa accadrà da qui in poi, ma le premesse sono esaltanti.
Chi è rimasto in sala ad assistere alla scena dopo i titoli di cosa sa di cosa sto parlando.

Recensione breve: “V for Vendetta” (fumetto) di Alan Moore

“La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta”. (Theodor Adorno)

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L’opera moderna. IL capolavoro.
Moore si carica sulle spalle una storia potente, forte di echi del passato, dal teatro e dalla letteratura, e la sviluppa con coraggio, passione e genialità. In un mondo in cui la libertà dell’individuo è assoggettata al controllo di un governo subdolo e criminale, in cui l’arte e la voce libera sono poste sotto l’indirizzo di un’informazione elitaria e mistificante, ecco comparire l’Uomo Nuovo: V. Una sorta di super uomo nietzschiano, capace di agire al di là del bene e del male, del bianco e del nero. Un’unico scopo: cantare la libertà.
Ecco allora che fra fraseggi incostanti e enigmatici, colpi di scena e rivoluzioni, Moore ci racconta il nostro presente, il nostro passato e forse (se noi lo permettiamo) il nostro futuro. Tanti i riferimenti alla Tatcher, ai crimini dei governi e alla corruzione delle forze dell’ordine. Ma non solo. Corruzione anche del singolo, del cittadino, che svende la sua parola e la sua libertà in cambio della sicurezza, in una contorta pulsione di vita e di morte verso il potere.

Grande opera.

Che cos’è “Random”?

Random è un sito di digressioni “burroghsiane” che abbraccia un pò tutte le cazzate, seghe mentali, pavonaggiate, menzogne, svalvolate culturali del quotidiano.

Fra gli echi di Gilmour, in compagnia dei Vagabondi del Dharma di Keoruac, in cima ai monti della Terra di Mezzo o sperduti fra le isole deserte dello scenario televisivo di Lost, racconteremo, improvviseremo eventi e incontri di vario genere. Sempre alla ricerca di una scintilla, di una vibrazione californiana che generi CULTURA, PASSIONE e DESIDERIO.

Non esiste cultura che si apprenda fra i banchi di scuola. Essa è, e sempre sarà, il prodotto di una collaborazione, di uno scambio.

Recensione: “Noah” di Darren Aranofsky

Ed eccoci qua. Alla fine della tenebra e alle luci del principio.

Chi di servizio corre ad aprire le porte di uscita annunciando l’imminente conclusione del film, alcuni iniziano ad alzarsi, un arcobaleno straccia lo schermo e, sfocando, introduce i titoli di coda.

Rimane così l’imperterrita visione biblica di Aranofsky, scolpita sulla tela di un vecchio cinema di provincia che proietta film ancora su pellicola (ndr. ricordatevi che entro la fine dell’attuale stagione cinematografica si dovrà passare al digitale causa interruzione produzione pellicole). Una visione epica, pungente, visivamente spettacolare ma tanto confusa quanto la tendenza onirico-dark tipica di Darren. Non c’è nulla dello splendido e definito arcobaleno finale nel resto del lungometraggio.

Noah-e1384349902870Che il regista de Il Cigno NeroThe Wrestler fosse un appassionato di misticismo e amasse infarcire i suoi film di messaggi criptici e new-age era cosa ben risaputa, fin dai tempi del complessato The Fountain (tutto sommato ben riuscito), ciò che forse non si sapeva o che, per lo meno, molti ignoravano è il suo spiccato ateismo re interpretato. E forse, proprio per questo suo aspetto personale, molti, tanti, si aspettavano un film (radicalmente) diverso da quello visto.

Perchè di fatto, Noah, è una trasposizione fedele e canonica (più di quanto si possa immaginare) del capitolo biblico dedicato a Noè e alla sua disperata missione sull’Arca.

Il kolossal epico scritto a quattro mani con Ari Handel svolge perfettamente il suo ruolo, intrattenendo, emozionando, infarcendo la trama con creature simil-fantasy e lezioni new-age, il tutto senza sconvolgere (quasi) mai il canone biblico da cui è tratto. E la delusione arriva forse proprio a questo punto: ci si aspettava minore adesione e più originalità, ribassi di buonismo pseudo cattolico e maggiore rielaborazione tematica.

Seguire le imprese del Noè di Aranofsky, i suoi sogni, il suo incontro con i Vigilanti (angeli caduti e divenuti mostri di roccia), la sua costruzione dell’Arca e il suo successivo fanatismo imposto, è senz’altro cose buona e giusta. Bella nella sua rappresentazione, nei suoi scenari, nel suo cast (Russel Crowe ci regala una delle sue migliori interpretazioni di sempre!), Noah-il-fantasy-biblico-di-Darren-Aronofsky-5-cose-da-sapere_h_partbla storia procede liscia come l’olio, senza subire scossoni rivelanti o mettere (più di tanto) in dubbio le azioni di Noè. Sì, perchè contrariamente alle atmosfere claustrofobiche e profondamente cupe del terzo atto, il film risente di un buonismo giustificatorio piuttosto duro da mandar giù. Nonostante il (genocidio?) massacro a cui Noè è costretto ad assistere, si rifiuta di imbarcare sulla sua Arca anche un solo umano peccatore, cadendo nelle pene della follia del fondamentalismo e arrivando a chiedere ai suoi stessi figli di suicidarsi in nome di un nuovo Eden. Chiaramente nessuno della famiglia morirà, Noè si rivedrà all’ultimo momento e si ritirerà solo sulle sponde di un isola da poca risorta dalle acque. Ci si aspetta il dolore, la mazzata Aranofskyana sul finale, nessuna pietà per un uomo che ha accettato di veder morire milioni di persone senza salvarne nessuna e invece…e invece…si arriva alla situazione risolutiva delle ultime scene in cui, sostanzialmente, il regista sembra voler giustificare o, se non altro, assecondare le azioni di Noè, ridandogli la sua famiglia e un ultima battuta pronta a dissipare ogni dubbio: “Così doveva essere fatto!”, condendo la scena con colori accessi e località simil sognanti dell’Islanda, senza dimenticare un buon brano epico in sottofondo.

Manca il coraggio della sconfitta, il senso di colpa, il cuore di un uomo che amava la vita e che ha guardato morire ogni singola anima peccatrice (innocente) che camminasse sulla terra.

Dura da mandar giù. Piacerà molto ai gruppi evangelici della Chiesa Sud-Americana.

Se non altro rimane il piacere della spettacolarità visiva tipica del cinema di Aranofsky. Scene come quella dello skyp veloce sulla creazione dell’universo o della montagna di corpi urlanti fra le onde dell’oceano farebbero impallidire i migliori Malick e Lynch.

Russell Crowe as Noah

Non Siete Uomini di Dio!

 

Al tempo, al gioco della vita, tutto e tutti soccombono. Ciò che è stato fatto, ciò che è stato annunciato o censurato, ogni delicatezza o crimine commesso, trovano, nei loro ultimi istanti, una sorta di “addio paritario”. Gli epitaffi, le “scintille” o le “pulci nell’orecchio”…bé, quella è “roba” per i sopravvissuti, compito loro è di giudicarne e ricordarne i valori e la veridicità.

E così viene fatto il 27 gennaio, il 17 marzo, il 10 febbraio, e via così con una serie di date e ricorrenze che renderanno più o meno felici le parti implicate. Il tutto grazie a una mole di testimonianze, fotografiche, scritte, orali, spesso “scomoda” e difficile da catalogare e, purtroppo, ancor più spesso soggetta ad operazioni politicizzate di revisionismo storico (utile e necessario, ma spesso conseguente ad abusi dettati dalla bassa autostima degli individui di un partito o di un movimento religioso), di censura o, ancora peggio, di negazione.

Si legga attentamente: censura e negazione svolgono ruoli simili, ma quest’ultima è assai più grave. Se nel primo caso l’azione è volta a “nascondere”, “impedire la diffusione di…”, con la negazione si impone un “NO”, un’ombra sulla veridicità di una data informazione. La censura è stupida, inutile, dimentica che la parola fa sempre il suo corso, la negazione segue un meccanismo più raffinato e genera oblio.

Quanti, ancora oggi, gli “anniversari dimenticati”! Caduti nel buio della memoria più o meno volontariamente. Quanti, ancora oggi, i soprusi e i crimini rimasti impuniti! 0006f729-642Le Case Magdalene, le torture e il loro radicalismo religioso, la loro definitiva abolizione, rientrano in questa categoria (se le “cose dimenticate” ne hanno una). Qualcuno ne ha mai sentito parlare?

Nate nel XIX secolo in Irlanda e in Inghilterra, per volontà della Chiesa Cattolica, le Case Magdalene (il nome è un riferimento a Santa Maria Maddalena) avevano, in un primo momento, lo scopo di accogliere e riabilitare ex prostitute volontariamente ritiratesi dalle strade. Gli si prestavano cure mediche e gli si offriva la possibilità di apprendere un mestiere in grado di assicurargli un posto nella società.

Non ci volle molto perché queste nobili premesse venissero abbandonate, e perché queste case perdessero il loro valore di accoglienza divenendo degli istituti di isolamento per giovani ragazze considerate “immorali” o “troppo carine” per i pregiudizi della società dell’epoca.

Seguire una condotta “peccaminosa”, rimanere nubili, risultare troppo avvenenti, cadere vittime di uno stupro, comportava l’immediato internamento in questi centri. Spesso erano le famiglie stesse a richiederne l’ingresso, in modo da evitare di svergognarsi in quella che, di fatto, era considerata una società onesta e lavoratrice. Un’Irlanda che appare lontana, primitiva, ma erroneamente, giacché l’ultima Casa Magdalena è stata chiusa nel 1996.

…Quando iniziavi a svilupparti (fisicamente) ti mettevano un bustino con le spalline e lo stringevano molto forte.
Se una ragazza era carina, se aveva dei bei capelli glieli tagliavano, […] succedeva che a volte le ragazze si guardavano il proprio corpo, se una suora o una sorvegliante le sorprendeva, la portavano nell’ufficio per punirla. Dicevano che era peccato essere vanitose, che non bisognava far svolazzare i capelli, che era peccato guardare il proprio corpo. Questo era quello che le suore ci insegnavano.”

Queste le parole di Phyllis Valantine, per raccontare la sua esperienza nelle Case Magdalene. Poche parole, estratte da una Magdalen-asylum-englandben più ampia testimonianza contenuta nel documentario “Sex in a Cold Climate” di Steve Humphries. Valentine, come tante altre Maggies (così erano chiamate le donne segregate) sue coetanee, non poteva avere contatti con il mondo esterno e doveva lavare, per circa 15 ore al giorno, lenzuola ed abiti di esercito ed ospedali appartenenti allo Stato Irlandese. Il tutto per avere la sicurezza di un tetto e ricevere un po’ di cibo.

Tante le denunce fatte alla Chiesa Cattolica, tanti gli scrittori e gli autori cinematografici attivi in prima linea per raccontare la terribile sorte capitata a queste ragazze. Già dal 1993, quando iniziarono ad uscire “clandestinamente” i primi racconti e le prime testimonianze di abusi subiti all’interno di questi istituti, per continuare poi nel ’96, in particolar modo dopo il 25 settembre (data di chiusura dell’ultima Casa Magdalena), raggiungendo gran voce nel 2002 con il controverso film di Peter Mullan “Magdalene” (accolto con dure critiche e condanne da parte del Vaticano).

Il governo irlandese ha accettato, giusto l’anno scorso, di ripagare con 58.000.000 di sterline alcune ex lavoratrici delle Magdalene, definendo il fenomeno che le aveva schiavizzate una “vergogna nazionale”.

Ora, con le recenti richieste fatte dall’ONU al Vaticano di rendere pubblici i nomi dei sacerdoti sospetti e/o colpevoli di pedofilia, si ha esortato la Santa Sede a svolgere un’indagine parallela sulle lavanderie e sui bambini strappati alle madri segregate nelle Case. Ciò nonostante, ad oggi la Chiesa non ha ancora risposto all’invito dell’ONU, spesso negando l’effettiva fondatezza delle accuse ricevute.

E fra le tante date, ricorrenze, segnate sui nostri calendari, quella del 25 settembre 1996, ancora non riesce a trovare il suo posto, venendo spesso dimenticata o abilmente rimossa anche nei più sinceri sermoni di parrocchia e nella celebrazione delle festività dedicate alla donna e alle madri.